le testimonianze sulla trudarmee

Ida Schmidt
ci descrive come ha vissuto nella Trudarmee

Ida Schmidt
Ida Schmidt

Dopo alcune settimane toccava a me, sono stata chiamata nella Trudarmee.

Nel dicembre ‘41 arrivò l’ordine a Minusinsk: tutte le donne tedesche che non avevano figli al di sotto dei tre anni dovevano prepararsi per il trasporto.

Ho preparato i pochi abiti e mi sono vestita in modo leggero. Indossavo le calze belle che avevo conservato. Mi sono data il fard e non ho dimenticato di mettermi un cappello. Ero giovane, avevo una buona figura, volevo avere un bell’aspetto.

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La maggior parte delle altre si vestiva in modo pesante. Quelle erano più sagge di me, perché durante il lungo viaggio a nord non avrebbero sofferto tanto il freddo quanto me.

Perché ero così incosciente? Ho creduto come molte altre che dicevano che saremmo state via solo per un breve periodo di tempo. La deportazione mi avrebbe dovuto effettivamente insegnare qualcos’altro.

Ma non volevo riconoscere che d'ora in poi la nostra vita era cambiata radicalmente. Oggi vedo il mio farmi bella come un modo per scacciare le preoccupazioni, non voler vedere la situazione in cui ci trovavamo in quel momento.

Sul luogo di raccolta c’erano i carri con i cavalli che ci portarono alla stazione. I bambini di età superiore ai tre anni erano vicino ai carri e quando li videro partire volevano andare con le loro madri. Furono fermati con la forza, gridavano e le loro madri piangevano.

Non dimenticherò mai nella mia vita queste immagini. Ancora oggi fa male quando ci penso.

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I bambini che restarono senza le loro madri furono sistemati presso altre donne, sia russe che tedesche o portati in orfanotrofi. Molti di questi bambini sono andati "persi" e molti sono morti.

Il treno merci ci ha portato a Baškiria. Io appartenevo a quelle donne che dovevano scendere dal treno nella città di Sterlitamak, non lontano da Ufa.

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Ero contenta di essere sopravvissuta a questo lungo viaggio. Nel vagone faceva troppo freddo. Eravamo affamati perché c'era ben poco da mangiare.

Arrivate a Sterlitamak ricevemmo per prima cosa cherosene e sapone per liberarci dai pidocchi. L’orlo delle gonne ne era pieno. In molte parti del corpo c’erano piaghe. Dovevamo toglierci tutto. L'abbigliamento veniva bollito. Dopo tre giorni la spidocchiatura si era conclusa.

I nostri sorveglianti russi, il più delle volte, ci trattavano in modo grezzo. Ci spronavano di continuo a lavorare e ci lasciavano raramente riposare. Ma non nego che tra di loro ci sono state delle persone gentili e comprensive che non ci chiesero l’impossibile e che capivano che il nostro corpo indebolito aveva bisogno di tanto in tanto una pausa più a lunga. Ma questo era l'eccezione e non la regola.

Non dimenticherò mai una cosa particolarmente grave, che mi era capitata nel secondo anno di guerra. Noi, un gruppo di una decina di donne, ricevemmo una sera l’ordine di scavare una fossa direttamente nelle vicinanze dell’edificio di amministrazione. Lì alla Stolowaja (russ.: tavola calda) doveva essere costruito qualcosa nei giorni successivi. Non avevamo saputo di più.

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Era inverno profondo con temperature intorno a 50° sotto zero. Per scavare abbiamo ricevuto pesanti martelli che avevano da un lato la forma di un ascia.

Era spaventoso. Ci affaticammo nel freddo per tutta la notte. Il terreno congelato era duro come il calcestruzzo.

Il mattino seguente avevamo scavato solo un buco grande come un secchio. Con tutta la buona volontà non eravamo riuscite a fare di più.

Quando sono tornata nel mio alloggio, alcune parti del mio corpo erano molto scure, quasi nere dal forte gelo. Le mie colleghe mi strofinavano a lungo con panni e acqua calda. Solo molto lentamente tornava la vita nel mio corpo quasi rigido.

La fossa non è mai più stata scavata e nessun’altra costruzione è stata realizzata.

Per la fine della guerra la vita nella Trudarmee era diventata un po' più facile. Potevo andare due volte alla settimana dopo il turno a casa del direttore per fare le pulizie. Sua moglie mi diede qualcosa da mangiare.

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Ogni tanto la sera, in una fabbrica di pane, con un’amica trascinavo dei sacchi di farina dal camion nel forno. I sacchi erano molto pesanti ed era una grande fatica. Ma in cambio ricevevamo del pane e così ogni tanto ci potevamo riempire lo stomaco.

Oltre al cibo per me c’era un’altra cosa importante: operare di nuovo in campo artistico.

Come ogni grande impresa dell’Unione Sovietica, anche la Baschneft (russ. Башнефть), Compagnie petrolifere, aveva gruppi di artisti dilettanti.

In qualche modo i responsabili si sono accorti di me. Molti membri di questi gruppi erano stati chiamati per il servizio militare e c’era mancanza di artisti. Mi hanno permesso di presentarmi ed erano entusiasti delle mie capacità.

Dopo due giorni potevo esibirmi in un evento musicale e di danza e dare il mio primo spettacolo. Durante il giorno il lavoro pesante, la sera le prove e le esibizioni: era difficile. Sono riuscita a superare anche questo.

Per me era molto importante mostrare di nuovo qualcosa di mio sia come persona che come artista. Inoltre, in mezzo agli artisti non ero una tedesca disprezzata, ma un membro alla pari dell'ensemble.

I colleghi russi mi rispettavano e non sono stata discriminata. Ma durante il giorno, sul luogo di lavoro, appartenevo ai lavori forzati e venivo insultata come “fascista” senza diritti. Che realtà assurda!

Il 9 maggio del ‘45, il giorno della vittoria, abbiamo festeggiato divertendoci. Ci eravamo procurati da qualche parte dell’alcol ed eravamo allegri, cantavamo e ballavamo per strada.

Credevamo che per il ritorno alle nostre famiglie e parenti lontani non avremmo avuto più problemi. Ma ci eravamo sbagliati. La maggior parte di noi doveva rimanere.

Noi, tedeschi, non potevamo cambiare il posto di lavoro e il luogo di residenza senza consenso. Fino al ‘55, avremmo dovuto presentarci presso la polizia: eravamo cittadini di seconda classe 1.

continua ......

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