le testimonianze sulle deportazioni

mappa delle deportazioni in Russia
mappa delle deportazioni in Russia

la signora Langenfelder
ci descrive come ha vissuto la deportazione1

Testimonianza della signora Langenfelder, tedesca sovietica deportata in Kazakhstan. Nata nel 1925, suo padre nacque in Germania e rimase in URSS dopo la prima guerra mondiale. Durante la guerra civile il padre militò nell’Armata bianca, per poi stabilirsi a vivere nella regione di Omsk, in Siberia. Allo scoppio della seconda guerra mondiale l’intera famiglia fu arrestata, e il padre fu separato dalla moglie e dalle figlie. Più tardi queste ultime furono deportate nei battaglioni femminili dell’"Armata del Lavoro" e trasferite a lavorare in Kazakhstan, nella regione di Karaganda. Oggi la signora Langenfelder vive in Germania.

A Karaganda incontrai molti tedeschi che erano stati trasferiti già dopo lo scoppio della guerra e provenivano dall’Ucraina, dal Volga... In questo kolchoz c’erano molti giovani, ragazze e ragazzi, che erano rimasti orfani da quando i genitori erano stati mobilitati nell’"Armata del Lavoro".

Ebbi modo di conoscere la storia di una famiglia, una storia molto comune: il padre, dopo la deportazione, venne subito trasferito nell’Armata del Lavoro a lavorare in un’industria militare a Celjabinsk. Non gli era neanche permesso di scrivere e ricevere lettere dalla famiglia, tant’è che solo nel 1954 la moglie seppe che era morto. Poco dopo anche lei fu mobilitata, e dovette lasciare le sue due bambine, di 6 e 10 anni, presso la zia. Ma a casa tornò quasi subito, nel 1945, perché era malata di tubercolosi. Morì sei mesi dopo e le due bambine, che già lavoravano nel kolchoz, rimasero orfane.

Queste persone di nazionalità tedesca erano considerate nessuno, ognuno poteva fare di loro quel che voleva, non avevano diritti. In quel momento mi accorsi che c’era qualcuno che aveva vissuto ancora peggio di noi.

Nel 1947 lavoravo in un lager sull’Angara. Sotto stretta sorveglianza, io e altre trenta donne salimmo su un barcone e percorremmo un tratto di fiume. Quando arrivammo, le guardie ci dissero: «Bene, adesso spianate la terra, tagliate gli alberi e costruite delle baracche». Naturalmente le prime baracche furono per i nostri sorveglianti, mentre per noi costruimmo delle capanne.

Era ottobre, la notte era fredda ma durante il giorno faceva caldo, era pieno di zanzare, insetti. Ovviamente per lavorare non ci diedero i guanti, così ognuno di noi cercò di coprirsi con quel che aveva, chi con stracci, chi con guanti di corteccia. Se stavi male, perché eri nel periodo delle mestruazioni, questo non interessava a nessuno. Però molte donne già da tempo non avevano più le mestruazioni.

Per le ragazze, e soprattutto per quelle carine, la situazione era ancora più difficile. A volte, di notte, i sorveglianti le chiamavano e le violentavano. Se rimanevano incinte, all’inizio venivano incarcerate. La maggior parte però non riusciva a portare avanti la gravidanza a causa di aborti spontanei dovuti al lavoro pesante. Altre morivano di emorragia dopo il parto, senza ricevere nessun tipo di aiuto.

Nonostante questo molte donne cercavano di rimanere incinte il più spesso possibile. Perché? Perché dopo tre mesi ricevevano un pasto un po’ più abbondante: 300 grammi di pane e una porzione di kasa in più al giorno. Quando la gravidanza era di oltre sette mesi, allora la ragazza poteva ricevere anche della marmellata e del grasso.

I primi mesi dopo la nascita del bambino, la madre poteva stare con lui e allattarlo; anche in questo periodo lei riceveva un’alimentazione più ricca. Per questo motivo molte scelsero questa soluzione per non morire di fame. Dopo tre mesi la madre doveva già uscire dalla ‘zona’ per andare al lavoro, me le era permesso tornare più volte nel lager per allattare il proprio figlio. In questo periodo le ragazze non vivevano nelle baracche comuni, ma in baracche speciali per le madri con bambini.

Dopo sei mesi, a volte dopo un anno, i bambini venivano presi. Le madri non li avrebbero mai più rivisti. Ho conosciuto donne che ebbero tre-quattro bambini, ma che non riuscirono a ritrovarli neanche dopo la morte di Stalin, quando la gente incominciò a cercare i propri parenti.

Nel lager non era possibile parlare tedesco, l’unica lingua consentita era il russo; soltanto tra di noi parlavamo in tedesco, ma piano, per non farci sentire dai sorveglianti. Se qualcuno di loro si avvicinava e sentiva, ci urlava: «Allora, fascisti, parlate di nuovo nella vostra lingua fascista? Non sapete che non si può?». A volte, solo per questo, venivi incarcerato.

La sera poi, nelle nostre baracche, intonavamo canzoni tedesche. Se erano allegre, i soldati arrivavano subito e ci vietavano di continuare, perché temevano che in esse ci fossero espressioni di scherno contro il regime sovietico, il kolchoz, il lavoro. Se al contrario erano tristi, erano considerate popolari e per questo non potevano essere contro Stalin.

Oltre alle canzoni, un’altra cosa accomunava noi tedesche: era la preghiera. I tedeschi sono sempre stati molto religiosi, sono sempre andati in chiesa. Nelle baracche, la sera, spesso pregavamo; questo ci faceva sentire meglio.

(testimonianza raccolta da Tiziana C. Callari, 26.10.1994, Monaco di Baviera. In CALLARI T.C., La deportazione dei tedeschi dell’URSS, tesi di laurea in Storia dell’Europa Orientale, Università degli Studi di Torino, a.a. 1994-1995, pp. 85, 94-96, 112-114).

continua ......