Susanne Thiessen,90enne, racconta all’ARD2
(televisione tedesca):
Ho vissuto in Siberia, 2.000 km dalla mia
patria, l'Ucraina. Mi ricordo
bene la fine della guerra: era un giorno triste per me e mia sorella.
Eravamo sdraiate sull’erba nel cortile del kolchoz3. Tremavamo perché entrambi avevamo la malaria.
“Abbiamo vinto, abbiamo vinto” gridavano i Russi per strada.
Erano passati 4 anni dalla nostra deportazione in Siberia, quando la Germania ha firmato la capitolazione. Avevamo perso quasi tutto.
Triste era quell’8 maggio 1945, perché in quel giorno era svanita anche la speranza di poter ritornare nel nostro villaggio in Ucraina. Avevo tanta nostalgia della mia patria. Ma a causa della mia origine tedesca, agli occhi dei Russi appartenevo alla Germania nazista.
La mia patria era Memrik, un piccolo villaggio vicino a Donec’k, 100 km a nord del Mar Nero. Lì sono migrati i miei antenati tedeschi alla fine del 18° secolo provenienti dalla zona di Danzica su proposta della zarina Caterina II, che della steppa fertile voleva fare un granaio.
Ai mennoniti4 la zarina donava generosamente 3 parcelle di terreno a famiglia, promettendo la libertà religiosa.
Per gli emigranti tedeschi in Russia non è stato mai facile, soffrivano durante gli sconvolgimenti politici e le carestie tra le due guerre mondiali.
Negli anni ’30, come tutte le minoranze straniere, gli emigranti tedeschi sono stati guardati con sospetto, ma avevano il necessario. Fino a quando Hitler nel giugno del 1941 è entrato in Russia con il suo esercito.
Stalin ha agito subito perché temeva la collaborazione dei tedeschi di Russia con gli attaccanti. Entro tre mesi fece deportare un gran numero della minoranza tedesca nei territori isolati ad est.
Alla fine del ’41 toccava agli abitanti di Memrik. Le truppe tedesche si avvicinavano sempre di più, notte dopo notte ed i coloni potevano sentire i loro aerei sopra il loro villaggio.
Poi il 3 ottobre del ’41 arrivò l’ordine che metteva una brusca fine alla vita quotidiana di tutti i coloni: entro 24 ore l'intero villaggio doveva essere caricato in 43 vagoni.
Allora avevo 26 anni, imballai i miei pochi averi e presi i miei due figli, il più piccolo aveva solo due mesi. Ero sola perché mio marito Hans era stato deportato già un mese prima nella cosiddetta Trudarmee (esercito di lavoro).
Non potevo portare molto con me: chi ce la faceva a portare tutto? Non comprendevo la punizione collettiva della minoranza tedesca, né volevo accettare la deportazione: noi non eravamo mica spie dei tedeschi.
Ogni volta che il treno si fermava nella steppa, speravamo che tornasse indietro e ci portasse a casa. Ma il ritorno non esisteva. Gli abitanti di Memrik, come tanti altri, sono finiti nella macina della storia.
Quasi 200.000 tedeschi di Ucraina e 350.000 della regione del Volga sono stati deportati dal giugno all’ottobre del ‘41 in Siberia o nel Kazakistan.
La destinazione del nostro treno era la piccola cittadina siberiana di Karasuk, al confine con il Kazakistan. Sono stata assegnata al kolchoz Charoschi (it.: il Buono) e lì sono stata preposta alla stalla bovina.
Lì rividi nel febbraio del ‘42 mio marito. Era quasi morto, aveva le gambe gonfie e non riusciva quasi a camminare.
Il lavoro nel bosco è stato molto duro e c’era pochissimo da mangiare. Per un breve periodo di tempo la famiglia stava insieme, poi Hans è dovuto tornare nella Trudarmee ed è sopravvissuto solo poche settimane.
Nei primi anni in Siberia ho perso anche mio figlio piccolo. Morì poco prima del suo secondo compleanno, perché il poco cibo che ci era assegnato era troppo limitato.
La morte di mio figlio era un grande lutto per me ma non mi potevo arrendere perché avevo un altro figlio di 4 anni: Peter.
Costruì una casa con le mie mani utilizzando terra e radici d’erba che dovevano resistere all’inverno siberiano. La casa veniva riscaldata con escrementi secchi di mucca perché ai tedeschi non veniva fornita la legna.
Da mangiare c’erano bucce di patate e pane fatto di semi d’erba, perché quando andavo nel kolchoz a prendere il cibo assegnato, spesso tornavo con le mani vuote.
Una volta hanno dato ad una Russa davanti a me otto chili tra burro e formaggio. A me invece non hanno dato nulla perché ero tedesca. Allora sono uscita e ho pianto.
Passati dieci anni dopo la guerra noi tedeschi di Russia vivevamo ancora in campi di lavoro o in villaggi speciali.
Eravamo obbligati al lavoro "socialmente utile" e potevamo lasciare il nostro luogo di residenza solo con un permesso. Una volta alla settimana dovevamo presentarci presso le autorità.
Solo nel 1955 si concluse il cosiddetto Kommandanturregime ed i tedeschi di Russia potevano decidere sul loro luogo di residenza.
Un ritorno nei nostri villaggi d'origine, tuttavia, veniva vietato rigorosamente dal governo sovietico. Molte famiglie quindi rimanevano nei villaggi e nelle città a loro assegnati o si trasferirono lì dove i loro parenti erano finiti a causa della deportazione.
Più dell'80% dei tedeschi di Russia dopo la guerra viveva in Kazakistan, in Siberia e nella regione dell’Altai.
Mi sono costruita gradualmente una nuova vita in Siberia. Lasciai il kolchoz dopo sette anni e mi sono trasferita con mio figlio a Karasuk. Lì mi sono sposata una seconda volta e ho avuto con mio marito Heinrich una figlia. Ma la Siberia non era mai diventata una nuova patria.
Nel '73 ci venne autorizzata la richiesta inaspettata di espatrio in Germania. All'inizio degli anni'90, durante la seconda grande ondata di espatrio, anche i nostri parenti partirono per la Germania.
Ora vivo con mio figlio a Gummersbach.
1 Fra il 3 e il 20 settembre ’41 furono deportati 446.480 tedeschi di Russia,
suddivisi in 230 convogli di 50 vagoni in media: circa 2.000 persone per
convoglio.
Spostandosi di pochi chilometri orari, i convogli impiegavano fra le
quattro e otto settimane per arrivare a destinazione nelle province di Omsk e
Novosibirsk, in quella di Barnaul, nella Siberia meridionale e nel territorio di
Krasnojarsk, in Siberia orientale. …..
Già il 29 agosto ’41 Molotov, Malenkov e
Zdanov proposero a Stalin di “ripulire” la provincia di Leningrado ed il resto
del paese. …..
Il 30 agosto
Berija (capo della
polizia segreta sotto Stalin) firmò una circolare che ordinava la deportazione
di 132.000 persone della provincia di Leningrado (fino al 26 gennaio '24 San
Pietroburgo), 96.000 in treno e 36.000 per via fluviale.
L’NKVD (Commissariato
del Popolo per gli Affari Interni) fece in tempo di arrestare solo e deportare
“soltanto” 11.000 cittadini sovietici di origine tedesca.
Nelle settimane
seguenti, analoghe operazioni si svolsero nelle province di Gor’kij (3.162
tedeschi di Russia deportati il 14 settembre), Mosca (9.640 il 15 settembre),
Krasnodar (38.136 il 15 settembre), Rostov (38.288 tra il 10 e il 21 settembre),
Tula (2.700 il 21 settembre), Zaporoz’e (31.320 dal 25 settembre al 10 ottobre),
Ordzonikidze (77.570 il 20 settembre).
Durante il mese di ottobre del ’41 la
deportazione colpì ancora oltre 10.000 tedeschi di Russia residenti in Georgia,
Armenia, Azerbaigian, nel Caucaso settentrionale ed in Crimea.
Da una
valutazione in cifre dell’evacuazione dei tedeschi di Russia risulta che alla
data del 25 dicembre del ’41 erano state deportate 894.600 persone, perlopiù nel
Kazakistan e in Siberia; se si tiene conte dei tedeschi di Russia deportati nel
’42, il totale arriva 1.209.430 unità, frutto di meno di un anno di operazioni,
dall’agosto del ’41 al giugno del ’42.
Ricordiamo che, secondo il censimento del
’39, la popolazione di origine tedesca nell’URSS era costituita da 1.427.000
persone.
Fu quindi deportato il 82% dei tedeschi di Russia, nello stesso momento
in cui la situazione nel paese sull’orlo dell’annientamento, avrebbe richiesto
che i contingenti militari e di polizia concentrassero tutti gli sforzi nella
lotta armata contro il nemico, anziché essere impegnati nella deportazione di
centinaia di milioni di innocenti cittadini sovietici di origine tedesca. In
realtà la percentuale di cittadini di origine tedesca colpiti dal provvedimento
era ancora più alta, se si tiene conto delle decine di miglia di soldati e
ufficiali di origine tedesca colpiti di origine tedesca espulsi dai ranghi
dell’Armata rossa e trasferiti nei battaglioni di disciplina dell’Armata del
lavoro, la cosiddetta Trudarmee, operante a Vorkuta, Kotlass, Kemerovo, Celjabimsk…….
Tratto da:I tedeschi del Volga
(ital.)
2 I Kolchoz nacquero
nel 1918 come cooperative volontarie di contadini, proprietari dei mezzi di produzione
usati, mentre la terra rimaneva di proprietà dello stato che la cedeva
gratuitamente in uso permanente al kolchoz, per ottenere produzioni maggiori
grazie all’impiego di moderne tecnologie fornite dallo stato sovietico.
Lo stato acquistava, a prezzi inferiori a quelli del mercato, i prodotti del
kolchoz per poi ridistribuirli in maniera egualitaria.
I soci erano retribuiti sulla base delle giornate lavorative svolte; inoltre
avevano a disposizione la loro casa e per ogni singola fattoria circa 0,3 ettari
di terra ad uso privato ed un po’ di bestiame.
Convincere il contadino russo ad entrare nel kolchoz e a mettere in comune la
sua terra e i suoi strumenti di lavoro non era facile perché era convinto
che la grande azienda e la sua gestione lo riportasse al servaggio, alla condizione
di dover lavorare per gli altri e non per se stesso.
L’adesione ai kolchoz saliva molto lentamente, per cui lo stato nel 1927
rese obbligatorio la partecipazione ad un kolchoz.
I primi aderenti ai kolchoz furono i contadini più poveri, mentre quelli
medi erano abbastanza esitanti ad entrarvi.
I contadini agiati, i kulaki, non erano per niente entusiasti della collettivizzazione.
Si rifiutavano di entrare nei kolchoz e ne ostacolarono la formazione mediante
sabotaggi, incendi dolosi e gli atti di sabotaggio crebbero vertiginosamente,
le sommosse e le azioni di guerriglia dovettero essere represse con la forza
e con l’impiego dell’armata rossa.
La grave crisi tecnica, dovuta alla mancanza dei macchinari, accelerò l’eliminazione
della classe dei kulaki: essi venivano espropriati di tutti i loro beni e deportati.
I contadini inoltre erano ostili a consegnare il grano e sono arrivati ad abbandonare
le semine primaverili e a macellare parte dei loro animali piuttosto che metterli
in comune.
Questo ha provocato un calo della produzione bovina attorno al 1930. La macellazione
dei cavalli ha provocato una riduzione della capacità di traino complessiva
e gli allevamenti dimezzati una carenza di generi alimentari e di lana; cominciò anche
a scarseggiare il letame, mentre la produzione di concimi chimici, che dovevano
essere forniti dallo stato, permaneva a livelli molto bassi. Per far fronte alla
diminuzione della produzione agricola, lo stato iniziò a farsi consegnare
una sempre maggiore quantità di prodotti, pagandoli agli stessi prezzi
del 1928, mentre nel frattempo il rublo si era svalutato.
Il 1932, anno in cui il raccolto si rivelò cattivo per il secondo anno
consecutivo, segnò l’inizio della carestia.